LIBIAIntervista a Angelo Del Boca. «La guerra del 1911 crimine della nostra storia.». Domani [29/10] un convegno a Roma (Tommaso Di Francesco)
I danni di guerra sono stati rimborsati con taccagneria. Resta aperto il contenzioso con la Libia di Gheddafi che si aspetta a saldo dei suoi 100mila morti non promesse materiali ma il riconoscimento del loro sacrificio negato 29 ottobre 1911, alle Tremiti e a Ustica sbarcano i primi 2.975 esiliati. Presi a caso per le strade di Tripoli, stivati a forza nelle navi, senza alcuna prova di colpevolezza. Fra di loro bimbi in tenera età, donne e vecchi. Molti non sopravviveranno.
Si apre domani, 29 ottobre, all'Archivio centrale di stato (ore 10, piazzale degli Archivi, 27) il convegno «I deportati libici in Italia negli anni 1911- 1912». La data del 29 ottobre è stata scelta perché è quella dell'arrivo della prima nave di esiliati libici nelle Isole Tremiti. Il Comune del piccolo arcipelago è il promotore dell'iniziativa. Che ha il patrocinio del Ministero degli esteri italiano, la collaborazione dell'Ambasciata libica, dell'Isiao, insieme alla collaborazione dei comuni di Favignana, Ponza e Ustica, che hanno avuto il triste primato di avere ospitato i luoghi di detenzione dove si è consumata la vita di centinaia e centinaia di disperati. Abbiamo rivolto alcune domande ad Angelo Del Boca storico del colonialismo italiano.
L'avventura coloniale italiana in Libia (1911-1943) mostra da subito particolari forme di repressione: rappresaglie, uso di gas asfissianti proibiti e bombe incendiarie contro i civili, i primi campi di concentramento per civili del ventesimo secolo. Perché questa violenza rabbiosa e diffusa, tanto che lei nelle sue opere parla di genocidio?
La reazione violenta e rabbiosa delle autorità civili e militari italiane fu causata, innanzitutto, dalla spiacevole sorpresa di vedere che i libici solidarizzavano, al momento dello sbarco, nell'ottobre del 1911, con le truppe turche di guarnigione ed anzi costituivano i reparti più aggressivi. Giolitti, male informato, era persuaso che gli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica attendessero l'arrivo degli italiani con autentica gioia. Deluso ed irritato, inviava al generale Caneva quei nefasti telegrammi con i quali ordinava stragi e deportazioni. Non soltanto gli italiani avevano sottostimato il patriottismo arabo, ma erano convinti che un «popolo di beduini» non sarebbe stato in grado di opporre una valida resistenza. Dovevano amaramente ricredersi. Già il 23 ottobre subivano, a Sciara Sciat, una pesante sconfitta con un bilancio di 21 ufficiali e 482 soldati uccisi. Ma non era che l'inizio. Nel 1915, durante la «grande rivolta araba», gli italiani avrebbero perso tutti i territori conquistati ed avrebbero conservato soltanto alcuni porti, dopo una frettolosa e disperata ritirata che era costata diecimila morti. Ci vollero vent'anni per riconquistare integralmente la Libia e l'uso di tutti i mezzi, compresi quelli proibiti. In effetti, la civilissima Italia giungeva ad impiegare l'iprite e il fosgene sulle popolazioni civili, nonostante che il governo di Mussolini avesse firmato la convenzione di Ginevra che proibiva l'impiego dei gas.
Quanti furono i deportati libici nel paese, gli esiliati fuori dalla Libia nelle isole italiane che allora erano tra i luoghi più impervi e malsani, e quante le vittime di questa repressione di massa?
I deportati libici in Italia superarono i 4 mila nel solo ottobre del 1911. In seguito, dopo ogni rovescio, le colonie penali italiane vedevano giungere altri confinati, dei quali però non è stato possibile tenere precisa contabilità. Siamo, invece, molto più informati sui libici che furono internati nei campi di concentramento del Sud-Bengasino e della Sirtica. Come è noto, l'idea di rinchiudere in tredici lager gran parte della popolazione della Cirenaica venne al generale Badoglio quando si accorse che la controguerriglia tradizionale non dava alcun frutto ed era assolutamente necessario isolare Omar el-Mukthar e i suoi mugiahidin. Scriveva infatti Badoglio e Graziani: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione». Badoglio era perfettamente consapevole del pericolo che incombeva sui libici, ma non modificò i suoi piani. Il risultato fu che dei 100 mila libici internati nei lager, 40 mila morirono per le epidemie, le spaventose condizioni igieniche dei campi, la scarsa e cattiva alimentazione, le frequenti decimazioni.
Quanto la mancanza di una memoria storica accettata - tuttora i libri di testo italiani non menzionano queste atrocità ed è ancora impossibile vedere il film sull'eroe libico Omar el-Mukhtar giustiziato dalle truppe d'occupazione fasciste guidate da Graziani - ha alimentato al contrario il mito di una occupazione italiana bonaria, alla «brava gente»?
Ovviamente su tutto ciò che accadeva di violento e negativo in Libia l'opinione pubblica italiana non veniva informata. La censura era rigidissima sia nel periodo della liberaldemocrazia che durante il ventennio fascista. Ma ciò che sorprende e indigna è che il silenzio sulle deportazioni e le stragi, consumate in Libia come in Etiopia, è stato mantenuto in Italia anche nel secondo dopoguerra, a libertà e democrazia ristabilite. Ancora oggi i testi scolastici, salvo poche eccezioni, ignorano quei gravissimi fatti o li minimizzano. E si dà il caso che un film sulla resistenza libica, «Il leone nel deserto», sia stato in pratica proibito e visionato soltanto nei cineclub. Ciò che prevale ancora oggi in Italia, nonostante le precise ed assordanti rivelazioni sui misfatti del colonialismo italiano, è una visione mitica e bonaria delle nostre imprese coloniali.
In che modo questa responsabilità storica ha costituito e costituisce un elemento irrisolto di quello che il governo libico chiama «mancato risarcimento delle vittime»? Cosa chiede ancora la Libia che non non riusciamo ad esaudire ma che promettiamo soltanto?
I risarcimenti dei danni di guerra, richiesti dalla Libia e dall'Etiopia, sono stati rimborsati con estrema taccagneria, al punto da aprire, specie con la Libia di Gheddafi, un eterno contenzioso. Si è allora cercato, con altrettanta grettezza, di saldare il debito materiale e morale con la promessa di costruire un ospedale o una strada litoranea. Ma ciò che si attendono veramente i libici, a saldo dei loro 100 mila morti, non sono tanto dei beni materiali quanto il riconoscimento del loro sacrificio, della loro dignità troppo a lungo calpestata, del loro patriottismo sovente negato. Salvo alcune nobili parole dell'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema, il 1º dicembre 1999, dinanzi al monumento ai martiri di Sciara Sciat, i vertici dello Stato italiano continuano ad ignorare i fatti e i loro debiti morali.
Come giudichi questa iniziativa nella quale, dopo il mausoleo allestito alle Tremiti l'anno scorso, proprio le piccole isole della deportazione prendono la voce della memoria?
Mi sembra estremamente lodevole che sia stato il sindaco delle Isole Tremiti a convocare questa giornata di studi sui deportati. E' proprio nelle Tremiti e ad Ustica che sbarcano, tra il 29 ottobre e il 3 novembre 1911, i primi 2.975 deportati. Sono stati raccolti a caso per le strade di Tripoli e poi ammucchiati nelle stive delle navi, senza alcuna prova di colpevolezza. Fra gli esiliati ci sono bimbi in tenera età, donne e persino un vecchio di 90 anni. Molti non sopravviveranno ai rigori della prigionia, alla cattiva alimentazione, all'angoscia per la separazione dai famigliari.
La disperazione dei deportati libici rimanda alla nuovissima tragedia dell'immigrazione che fugge dalla grande miseria dell'Africa. Non ti sembra che permanga una forma malcelata di colonialismo nella pressante richiesta da parte italiana e europea - il muro di Shengen - alla Libia perché si trasformi in gendarme degli immigrati?
I Centri istituiti in Libia negli ultimi anni, nell'ambito della lotta all'immigrazione clandestina, con il consenso e il finanziamento delle autorità italiane, non si possono configurare certo come autentici campi di concentramento, ma essi rientrano tuttavia in quel novero di strumenti odiosi che credevamo estinti. Pertanto rivolgiamo un invito alle autorità italiane e libiche a ricercare strumenti più umani per risolvere i problemi della convivenza. Aggiungere sofferenze a sofferenze non fa che acuire il contrasto fra il sud e il nord del pianeta, con tutte le conseguenze che sappiamo.
FASE ANTECEDENTE ALLE FOIBE
FOIBE
foibe
La repressione fascista in Jugoslavia: l'origine del male. Presentato di recente presso la libreria Arion di Roma, l'ultimo studio della storica triestina Alessandra Kersevan “Lager italiani: pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943”, edito da Nutrimenti, mette a fuoco il preciso contesto storico che ha preceduto il fenomeno delle foibe, restituendo quei dati, testimonianze e documentazioni di cui si fa spesso a meno quando di analizza questo periodo storico controverso.
Sottrarre il contesto, le concause, le radici degli eventi storici, in Italia ha sempre suscitato evidenti problemi di comprensione e ricostruzione, originando letture propagandistiche e poco attendibili dal punto di vista storiografico.
L'ultimo lavoro della Kersevan, storica e coordinatrice dalla casa editrice Kappa Vu per la collana “Resistenzastorica”, aiuta a far luce sul sostrato storico di quegli avvenimenti, recuperando elementi ed antefatti essenziali, nel tentativo di re-introdurre, con il dovuto metodo e rigore d'indagine, un dibattito ancora sospeso nell'agone ideologico (ora mediatico).
Cosa avvenne realmente in Jugoslavia tra il 1941 e il 1943? Dopo l'aggressione nazifascista alla Jugoslavia, fra il 1941 e l'8 settembre del 1943, il regime fascista e l'esercito italiano misero in atto un sistema di campi di concentramento in cui furono internati decine di migliaia di jugoslavi: donne, uomini, vecchi, bambini, rastrellati nei villaggi bruciati con i lanciafiamme. Lo scopo di Mussolini e del generale Roatta, l'ideatore di questo sistema concentrazionario, era quello di eliminare qualsiasi appoggio della popolazione alla resistenza jugoslava e di eseguire una vera e propria pulizia etnica, sostituendo le popolazioni locali con italiani. Arbe-Rab, Gonars, Visco, Monigo, Renicci, Cairo Montenotte, Colfìorito, Fraschette di Alatri sono alcuni dei nomi dei campi in cui furono deportati sloveni, croati, serbi, montenegrini e in cui morirono di fame e malattie migliaia di internati. Una tragedia rimossa dalla memoria nazionale e raccontata in questo libro anche grazie ad una importante documentazione in gran parte inedita fatta di foto, lettere, testimonianze dei sopravvissuti.
Per approfondire ulteriormente il tema, abbiamo contattato direttamente l'autrice per porle alcune brevi domande.
Perché in Italia viene così trascurato il periodo storico antecedente alle foibe?
Dopo l'8 settembre del ‘43, l'Italia da stato fascista, aggressore e alleato dei nazisti, divenne paese occupato dai tedeschi e cobelligerante degli alleati e nei territori occupati si sviluppò una importante Resistenza, con una vasta adesione popolare. Ciò fece sì che nell'immaginario collettivo l'Italia diventasse paese aggredito, vittima e antifascista, facendo dimenticare il periodo precedente. Ciò fu funzionale sia ai progetti del governo italiano, in quanto così poteva spendere nelle trattative di pace l'immagine dell'Italia come vittima del nazismo e partecipe della lotta di liberazione europea, per limitare i “danni” costituiti dal fatto che in realtà era un paese sconfitto; sia agli angloamericani, che in funzione della già iniziata “guerra fredda” vedevano l'Italia come un importante alleato nel campo occidentale e quindi era necessario far dimenticare i crimini di guerra commessi dall'esercito italiano. Infatti generali e ufficiali e addirittura anche importanti comandanti fascisti, come Junio Valerio Borghese, sarebbero stati riciclati e usati in funzione antipartigiana e anticomunista. Purtroppo di questa smemoratezza sulle responsabilità italiane nelle guerre di aggressione è stato favorito anche dal fronte antifascista, che ad un certo punto in questo dopoguerra ha preferito mettere esclusivamente l'accento sui meriti partigiani dopo l'8 settembre, tralasciando, anche forse per un malinteso senso della “patria”, un discorso serio sui crimini commessi nei paesi aggrediti dall'Italia.
Da cosa deriva questa cattiva abitudine di sottrarre il “contesto” agli eventi storici?
Isolare un fatto storico dal suo contesto è funzionale alla riscrittura della Storia secondo le esigenze politiche dell'attuale ceto dirigente, teso alla riabilitazione del fascismo e alla delegittimazione di qualsiasi ribellione, oltre che alla condanna del comunismo. Infatti l'insistenza sul tema delle foibe e la sua manipolazione mass-mediatica non sarebbe possibile se gli italiani fossero consapevoli di ciò che il fascismo rappresentò nelle terre del confine orientale, se sapessero dell'aggressione alla Jugoslavia e delle atrocità commesse dall'esercito italiano contro i popoli slavi occupati, se sapessero delle fucilazioni di ostaggi, della distruzione di villaggi e delle orribili condizioni di vita nei campi di concentramento fascisti. Tuttavia la decontestualizzazione di queste vicende della seconda guerra mondiale sul confine orientale è solo un esempio. La stessa decontestualizzazione sta avvenendo per esempio anche riguardo al movimento del ‘68, alla questione dello stragismo degli anni Settanta, a tutto il discorso relativo alla Gladio, diventata da organizzazione clandestina e anticostituzionale a baluardo e difesa legittima dal solito “spettro” del comunismo.
Qual è stata la metodologia di ricerca che le ha consentito di arrivare a una stesura definitiva del libro?
Ho cercato di raccogliere più materiale possibile, e il più vario possibile, intorno ai campi di concentramento italiani. Quindi ho analizzato sia gli studi già esistenti sull'aggressione alla Jugoslavia e i campi di concentramento, sia documentazione d'archivio (dagli archivi di stato di Udine e Roma, all'archivio di stato di Lubiana, all'archivio dello Stato Maggiore dell'Esercito, ma anche archivi comunali e parrocchiali, oppure l'archivio dell'ANPI o degli istituti storici della Resistenza), e poi la memorialistica, le tante autobiografie di soldati italiani che hanno combattuto in Jugoslavia o che hanno fatto parte dei contingenti di guardia ai campi, e naturalmente le interviste sia a ex deportati che a gente che abitava vicino ai campi. Ho cercato poi di confrontare questa diversa documentazione, cercando sempre più conferme per i singoli fatti.
Quali sono al momento i testi e le ricostruzioni più attendibili? E quali autori suggerisce a chi affronta per la prima volta questo tema?
Ci sono testi di autori che già perlomeno dagli anni sessanta hanno studiato e chiarito le vicende dell'aggressione alla Jugoslavia e della repressione dell'esercito e delle autorità italiane, come quelli del prof. Enzo Collotti e del compianto prof. Teodoro Sala. Poi naturalmente, per quanto riguarda i campi di concentramento ci sono gli studi fondamentali del prof. Carlo Spartaco Capogreco, per quanto riguarda le aggressioni coloniali gli studi del prof. Del Boca. Ma negli ultimi anni c'è sempre più attenzione ed interesse, e si possono trovare molti testi, da quelli di Rodogno sul “nuovo” ordine mediterraneo, a quelli di Eric Gobetti sull'occupazione della Jugoslavia e recentemente anche Davide Conti. Ma, come ho detto, negli ultimi anni gli studi sull'imperialismo italiano e fascista stanno diventando numerosissimi.
L'istituzione per legge della “Giornata del ricordo” da parte del centro-destra italiano
Nel 2004, il Parlamento approva la legge 92, istituendo il 10 febbraio la “Giornata del ricordo” per le vittime delle foibe. “La repubblica italiana ricorda” , questa è la frase scritta sulla medaglietta consegnata ai parenti dei caduti, secondo il testo della legge “infoibati o uccisi dall'8 settembre del '43 al 10 febbraio del '47, in Istria, Dalmazia e Italia orientale”.
Secondo un'indagine fatta dal collettivo “Resistenza storica”, dal 10 febbraio del 2006, solo poche famiglie hanno accettato di rendere noto il nominativo del proprio parente dopo aver ricevuto l'onorificenza: a Udine chi ha ricevuto il riconoscimento ha richiesto infatti che non fosse reso noto il nome del congiunto in questione. Qualcuno con un po' di senno se ne vergogna.
Di quelli che hanno ricevuto il riconoscimento 55 erano militari fascisti dei vari corpi nazionali, squadristi, ma anche podestà e prefetti, capi e capetti a cui Mussolini affidò il controllo su terre e persone, o che ricoprivano incarichi per conto dei nazisti. Tra i “premiati” ce ne sono 14 la cui morte non può essere attribuita ad “infoibamento”, perché morti dopo o in altri luoghi, ma ci sono anche morti in combattimento e quindi chiaramente non inclusi nel testo della legge.
Insomma si premiano uomini che hanno contribuito a rafforzare un regime che in nome della purezza della razza e del mito della patria ha commesso orrori indicibili e si disonora la memoria di chi invece lottava per sradicare le bieche ideologie del fascismo dall'Italia e dagli italiani.
I dati ufficiali sui morti infoibati non sono quelli presentati in modo propagandistico dalle destre nazionaliste e gli storici che ne ricostruiscono i fatti, inseriscono contestualmente le foibe all'interno del secondo conflitto mondiale.
ISTRUZIONE E FICTION: ECCO LA NUOVA PROPAGANDA
Come sottolinea la storica Claudia Cernigoi, “quando la propaganda di destra cita gli orrori delle foibe, si dimentica regolarmente di citare la quantità di morti che costò la pacificazione operata dai nazisti nei territori da loro liberati dai partigiani”.
Revisionismo, questo, che non si fa scrupoli a negare l'olocausto degli ebrei così come di quelli che il nazifascismo considerava inferiori: zingari, omosessuali, vecchi invalidi, e tutti gli oppositori politici.
Un'opera di strumentalizzazione finalizzata alla creazione ex novo di una memoria del tutto falsa da inculcare nelle nuove generazioni, sostituendo la verità con le menzogne, scambiando le vittime con i carnefici e relegando la lotta per la libertà di migliaia di partigiani ad una tragica guerra fratricida in cui a scontrarsi, non va dimenticato, sono state idee di onnipotenza contro idee di libertà.
Una strumentalizzazione che, consapevole della forza delle masse, tende perciò ad escluderle dalla storia, subordinandone le azioni al potere delle elite politiche e riducendone la libertà di pensiero. Infarcire l'immaginario popolare di grandi miti e speranze di vittoria: così si muove una destra astuta, erede della Repubblica di Salò, che ha incarnato in questi anni il rancore dei vinti conquistando una larga fetta di consenso servendosi degli strumenti del “soft power” per cancellare il passato e delegittimare la storia.
Nel febbraio del 2005 va in onda sulla rai una fiction dal titolo “Il cuore nel pozzo”, un esempio di mistificazione mediatica operata sulla tv pubblica, per diffondere nazionalismo e anticomunismo e sostenere il mito degli “italiani brava gente”. Un mix letale di immagini e ricostruzioni storiche romanzate, intessuto di stereotipi, seguito da ben 17 milioni di telespettatori, che non si fa mancare nulla della programmaticità della retorica usata dalla propaganda nazista e fascista. Dialoghi, inquadrature, colonna sonora rapiscono lo spettatore e lo tengono incollato alla drammatica vicenda di un bambino che perde i genitori nelle foibe istriane, uccisi dai feroci partigiani jugoslavi.
Le incongruenze storiche non si contano in quest'opera di bassa cinematografia che però raggiunge perfettamente il suo scopo: riscrivere la storia nell'immaginario popolare, sostituendo al ricordo ormai consumato della lotta partigiana e della guerra un'immagine nuova ma assolutamente falsa.
Non contenta dell'ottimo servizio di propaganda politica reso come tv pubblica, la Rai ha attualmente in lavorazione un'altra fiction tratta dal libro di Giampaolo Pansa “Il sangue dei vinti”, dal contenuto esplicitamente revisionista. Il libro è infatti un insieme di congetture basate esclusivamente sulle tesi sostenute dai gruppi neofascisti in cui s'ignora volutamente la cornice storica in cui i fatti avvenuti in seguito alla liberazione si sono svolti. Un'opera di rimescolamento di false verità e pericolose ideologie per trasformare il passato in assurda mistificazione. Questa operazione di revisionismo ha interessato anche le scuole: in occasione del 10 febbraio scorso, in alcune scuole del Veneto viene distribuito un “cofanetto del ricordo”. Si tratta di un opuscolo che partendo da una ricostruzione sommaria e lacunosa della Storia del confine orientale dell'Italia fino ad oggi, pretende di coprire con poche righe una pagina lunga e delicata del nostro paese. Lo scritto, sottoposto ad un attento studio dell'Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani) veneto e della storica Alessandra Kersevan, ha rivelato gravi inesattezze e manipolazioni. A farne le spese gli studenti, i giovani, e tutti coloro che storditi da un sistema che propina solo menzogne ne fa nuovi sostenitori, spesso passivi del neofascismo italiano.
http://www.megachip.infoL'OCCUPAZIONE DELLA SLOVENIA
I campi italiani
1941-43: i campi di concentramento nella Jugoslavia occupata
Il 6 aprile 1941 l'esercito italiano e quello nazista invasero la Jugoslavia. La Slovenia viene smembrata fra Italia (il territorio che diventa provincia di Lubiana) e Germania. Per quanto riguarda la Croazia il 18 maggio Aimone di Savoia, diventa re di Croazia, con il collaborazionista Ante Pavelic come primo ministro.
Le prime formazioni partigiane slovene iniziarono la loro azione nel luglio 1941, con effettivi molto limitati (vengono successivamente indicate in 8-10 mila). Il primo tentativo di annientamento del movimento di liberazione jugoslavo, con un'azione congiunta italo-tedesca, viene realizzato nell’ottobre 1941. Esso termina con un totale fallimento, malgrado l’uso sistematico del terrorismo verso le popolazioni civili, le stragi e la distruzione, le rappresaglie feroci verso i partigiani e le loro famiglie (solo a Kragulevac, furono fucilate 2300 persone).
Con l'inasprimento della lotta, i nazifascisti tentano una seconda grande offensiva, con 36.000 uomini. Scarsi risultati, moltissime vittime. I partigiani riescono a sfuggire al tentativo di accerchiamento.
La terza grande offensiva si svolge dal 12 aprile al 15 giugno 1942, sotto la direzione del generale Roatta. Ancora una volta grandi perdite, stragi e distruzioni: non viene raggiunto l'obiettivo di annientamento.
Intensificazione delle azioni contro guerriglia in Slovenia da parte delle forze del XI^ Corpo d'Armata (quattro Divisioni italiane, con l'aggiunta dei fascisti sloveni della "Bela Garda" (Guardia Bianca). Sempre feroci le azioni di terrorismo contro i civili e la deportazione delle popolazioni di intere zone, senza distinzioni di sesso e di età.
Bilancio delle vittime slovene in 29 mesi di terrore fascista, nei 4.550 Km quadrati di questo territorio:
Ostaggi civili fucilati .............................… n. 1.500
Fucilati sul posto........................................ n. 2.500
Deceduti per sevizie.................................. n. 84
Torturati e arsi vivi……………………… n. 103
Uomini, donne e bambini morti nei campi
di concentramento……………………..… n. 7.000
Totale ………………………………… n. 13.087
In Slovenia, già dall’ottobre del 1941, il tribunale speciale pronuncia le prime condanne a morte, il mese dopo entra in funzione il tribunale di guerra. La lotta contro i partigiani, che diventano una realtà in continua espansione, si sviluppa nel quadro di una strategia politico-operativa rivolta alla colonizzazione di quei territori. Con l’intervento diretto dei comandi militari italiani la politica della violenza si esercita nelle più svariate forme: iniziano le esecuzioni sommarie sul posto, incendi di paesi, deportazioni di massa, esecuzioni di ostaggi, rappresaglie sulle popolazioni a scopo intimidatorio e punitivo, saccheggiamento dei beni, setacciamento sistematico delle città, rastrellamenti… prende corpo il progetto di deportazione totale della popolazione, con il trasferimento forzato degli abitanti della Slovenia, progetto che i comandi discutono con Mussolini in un incontro a Gorizia il 31 luglio 1942 e che non si realizza solo per l’impossibilità di domare la ribellione e il movimento partigiano. Nel clima di repressione instauratosi con l’occupazione militare nel territorio jugoslavo, per il regime fascista nasce inevitabilmente l’esigenza di creare delle strutture per il concentramento di un gran numero di civili, deportati da quelle regioni.
In una lettera spedita al Comando supremo dal generale Roatta in data 8 settembre 1942 (N. 08906), viene proposta la deportazione della popolazione slovena. "In questo caso scrisse si tratterebbe di trasferire al completo masse ragguardevoli di popolazione, di insediarle all'interno del regno e di sostituirle in posto con popolazione italiana".
I campi di concentramento e deportazione italiani furono almeno 31 (a Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, ecc.), disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Solo nei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel lager di Arbe (Yugoslavia) ne morirono 1.500 circa. Vi furono internati soprattutto sloveni e croati (ma anche "zingari" ed ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini.
A Melada (Zara) in Dalmazia, il 29 giugno 1942 arrivò il primo trasporto, composto da 76 uomini, 103 donne e 44 bambini. In breve, le presenze nel campo salirono a 1.320 persone. In data 15 agosto 1942 erano rinchiusi nel campo 1.021 donne, 866 uomini e 450 bambini, di cui 10 nati nel campo. Molti dei prigionieri vennero via via trasferiti in Italia, alle Fraschette di Alatri in particolare. Il maggior numero di presenze si registrò, al netto dei trasferimenti, il 29 dicembre 1942 con 2.400 prigionieri. Il campo cessò la sua attività il 9 settembre 1943. Le stime dei ricercatori e degli storici valutano in circa 10.000 il totale dei prigionieri passati per Melada, con un numero di morti pari a 954. In questo totale non è possibile sapere se sono compresi i 300 fucilati quali ostaggi.
Altri campi furono organizzati a Mamula e Prevlaka, nel Cattaro, e a Zlarino (Zara).
E’ certo, tuttavia, che il campo più tristemente famoso fu quello di Arbe (Rab), nell’isola omonima, ove alla fine del giugno 1942, dopo aver evacuato forzosamente gli abitanti delle case della zona scelta per l’insediamento del campo, dopo aver allargato una strada, i soldati italiani diedero il via all’installazione di circa mille tende, ciascuna da sei posti.
A proposito ecco un documento del 15 dicembre 1942, in quella data l'Alto Commissariato per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati "presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame", sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: "Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo".
Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell'XI Corpo in cui si parlava di "briganti comunisti passati per le armi" e "sospetti di favoreggiamento" arrestati, in una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose; "Chiarire bene il trattamento dei sospetti, cosa dicono le norme 4C e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!".
L'ultima frase è sottolineata, il generale Robotti alludeva alle parole d'ordine riassuntive del generale Mario Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia (Supersloda) il quale nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge:
"Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente".
E infatti furono migliaia i civili falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla "Provincia del Carnaro", dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.
PMLI
Il 6 aprile 1941 le forze armate tedesche e italiane oltrepassarono i confini della Jugoslavia. L'Italia fascista partecipò all'attacco con sette divisioni, due corazzate e cinque di fanteria, impadronendosi con rapidità della costa dalmata, occupando l'11 aprile Lubiana, Ragusa l'attuale Dubrovnik (17 aprile) e il Montenegro (18 aprile). Al termine delle operazioni militari nazifasciste la Jugolavia fu smembrata: all'Italia andarono la fascia meridionale della Slovenia con la costa dalmata; anche il Montenegro divenne un protettorato italiano.
``Mettiamoci bene in testa che questa gente (gli jugoslavi, ndr) non ci amerà mai. Quindi nessuno scrupolo''. Procedere ``con l'annientamento di uomini e cose''. Con queste parole Mussolini dettava la linea ai capi militari fascisti. In 29 mesi di occupazione della Slovenia secondo una statistica incompleta e riguardante la sola provincia di Lubiana furono uccise 12 mila persone (7 mila nei lager), 40 mila furono deportate, 10 mila le case distrutte. Arbe, Gonars, Cairo Montenotte, Pothum, Sdrussina, alcune delle località del martirio del paese slavo occupato dalle truppe fasciste.
Esecuzioni sommarie, massacri indiscriminati, rastrellamenti selvaggi, torture, rappresaglie contro civili inermi, razzie, devastazioni, campi di concentramento e deportazione: questo il volto dell'occupazione fascista. ``I crimini commessi dai soldati italiani non sono da meno, in ogni senso, di quelli commessi dai tedeschi'' affermerà il 14 maggio 1945 il delegato del governo di Belgrado presso la Commissione per i crimini di guerra delle Nazioni Unite.
L'escalation del terrore fascista in Slovenia non conobbe né limiti né soste, come si evince dai documenti redatti dai capi militari italiani.
Il 1° marzo 1942 Superloda (Comando superiore armate Slovenia e Damazia) inviò a tutti i comandi sottoposti la famigerata circolare 3 C. Estensori ne furono il comandante dell'XI Corpo d'armata, generale Mario Robotti, e l'alto commissario per la provincia di Lubiana, Emilio Grazioli. In essa si legge: ``Internare a titolo protettivo, precauzionale e repressivo, individui, famiglie, categorie di individui delle città e delle campagne e, se occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali''; ``fermare ostaggi, tratti ordinatamente dalla parte sospetta della popolazione e, se giudicato opportuno, anche del suo complesso, compresi i ceti più elevati''; ostaggi, che ``possono essere chiamati a rispondere, con la loro vita, di aggressioni proditorie a militari o funzionari italiani''; ``considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli abitanti di case prossime al luogo in cui essi vengono compiuti''. ``Si sappia bene - conclude la circolare 3 C. - che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostreranno timidezza e ignavia''.
Il 3 agosto dello stesso anno, a margine del marconigramma 13069/op., nel quale il comandante della divisione Granatieri di Sardegna, generale Taddeo Orlando, comunicava al comando dell'XI Armata l'avvenuto inoltro di ``37 uomini validi senza specifiche imputazioni per l'internamento e 3 briganti comunisti feriti'', il generale Robotti annotava stizzoso: ``Perché non li hanno fucilati? Fargli questo appunto (e fuciliamoli noi)''. ``Si ammazza troppo poco'', sottolineava ancora l'8 agosto il generale Robotti dopo aver ricevuto il fonogramma 5566 inviatogli dal comandante della divisione Cacciatori delle Alpi, Vittorio Ruggero: ``Mi pare che su 73 sospetti non trovare il modo di dare nemmeno un esempio, è un po' troppo''.
Il 30 luglio 1942 il comando raggruppamento camicie nere d'assalto ``Montagna'' chiedeva rinforzi, poi accordati, per poter effettuare ``lo sgombero totale della popolazione appartenente ai paesi di Breg, Pako e Goricica''.
Il 17 gennaio 1943 toccava al XIV battaglione redigere il seguente messaggio, a firma del maggiore comandante Ettore Giovannini e indirizzato al comando dell'XI Corpo d'armata: ``Le nostre truppe hanno agito con particolare severità contro Loz compiendo la distruzione, quasi completa, delle abitazioni, la confisca del bestiame, la fucilazione di molti giovani e l'internamento di un elevato numero di civili''.
Nella provincia di Lubiana i servizi di polizia, diretti dal tenente colonnello Giuseppe Agueci e dalla Regia questura, dalla quale dipendeva una divisione speciale di polizia, comandata dal maggiore Giulio Fiammeri, praticavano la tortura. Non pochi testimoni racconteranno le sevizie patite: corrente elettrica, distensione forzata (letto di Procuste), ustioni al corpo con carboni ardenti e bastonature. Per le donne pratiche vergognose e persino stupro. In un appunto, sigillato a mano da Agueci su carta intestata del comando dell'XI Corpo d'armata, si legge: ``Gli sloveni dovrebbero essere ammazzati tutti come cani e senza alcuna pietà''.
Spesso, da parte delle forze di occupazione italiane non vennero rispettate neppure le cosiddette ``convenzioni umanitarie''. Il documento l 8279/2/947 del 4 settembre 1942, a firma del capo di Stato Maggiore del IX Corpo d'armata, colonnello Annibale Gallo, recitava: ``Avvertire ancora i medici che le cure prestate ai ribelli comporta la pena di morte''. Ancora più criminale il fonogramma P.P.59 del 12 luglio 1943, indirizzato dal colonnello Sordi del comando 24° reggimento fanteria al comando divisione Isonzo: ``Prego disponete intervento aereo 144-CM-9 su Sapoota (KI-CK) dove è stato segnalato un ospedale b.c. (briganti comunisti, ndr)''.
RSI
La "repubblica di Salò'', fantoccio dell'occupazione nazista e dittatura terroristica fascista
Oggi che anche la sinistra del regime neofascista ha sposato in pieno la tesi storica dei fascisti sul revisionismo storico arrivando a riabilitare il fascismo perfino nella versione più mostruosa e sanguinaria che fu la cosiddetta "repubblica di Salò''; oggi che la confessione del proprio passato repubblichino è diventato quasi un titolo onorifico e molti ex "ragazzi di Salò'' che dopo la Liberazione si erano ricostruiti una "verginità'' antifascista fanno a gara per confessare i loro trascorsi fra le file degli aguzzini in camicia nera; tocca a noi marxisti-leninisti, autentici e conseguenti antifascisti, fare chiarezza per far capire soprattutto alle nuove generazoni cosa è stato il fascismo e quanti lutti, sofferenze e sciagure ha provocato.
La nascita della Repubblica sociale italiana (Rsi) detta anche repubblica di Salò dal nome del comune in provincia di Brescia che fu sede del governo nei territori dell'Italia centrosettentrionale occupati dai nazisti all'indomani dell'8 settembre 1943 segna l'inizio di una delle pagine più nere e ignominiose di tutto il ventennio fascista.
Nata per ordine diretto di Hitler, la Rsi a partire dal settembre '43 fino al 25 aprile '45 fu trasformata da Mussolini e dai suoi gerarchi con alla testa Alessandro Pavolini e Rodolfo Graziani in uno strumento di lotta, di tortura e di oppressione al servizio degli occupanti tedeschi e diretto contro tutto il popolo italiano e in particolare contro la lotta di liberazione partigiana.
Con la guerra ormai persa, la Rsi fu lo strumento attraverso cui gli aguzzini nazi-fascisti tentarono di soffocare nel sangue la gloriosa Resistenza partigiana mettendo a ferro e fuoco tutta l'Italia centrosettentrionale e schiacciando sotto il tallone di ferro le masse popolari e lavoratrici.
L'eroica vittoria di Stalingrado nel febbraio del 1943 aveva già cambiato le sorti della seconda guerra mondiale imperialista a favore dei popoli e delle nazioni oppresse.
Grazie agli immani sacrifici, lutti e privazioni sopportati dal popolo sovietico e dall'Armata Rossa guidati da Stalin, le "invincibili'' armate hitleriane e il corpo di spedizione italiano in Russia (Csir) composto da circa 62 mila soldati vengono praticamente annientati e in poche settimane tutto il fronte nazi-fascista che nell'estate del '41 aveva proditoriamente aggredito la patria del socialismo è costretto a battere in ritirata.
La vittoria di Stalingrado costringe gli Alleati ad affrettare i tempi per l'apertura di un secondo fronte di guerra occidentale; e, dall'altro lato, contribuisce in modo determinante alla nascita e al rilancio su vasta scala della lotta di liberazione dei popoli dal giogo nazi-fascista in tutti i continenti.
Anche in Italia la lotta contro il regime mussoliniano subisce un salto di qualità. La classe operaia si mette alla testa di un vasto movimento di liberazione che inizia con gli scioperi del marzo '43 alla Fiat di Torino e poi dilaga in tutte le maggiori fabbriche del Paese scuotendo dalle fondamenta il regime fascista.
Lo sbarco alleato in Sicilia nella primavera del '43 e il moltiplicarsi delle rivolte popolari contro il regime in tutto il Sud Italia sono il preludio all'ormai imminente caduta del fascismo.
Le contraddizioni esplose all'interno dello stesso comando fascista, che non sa più come continuare una guerra ormai persa, costringono Mussolini a convocare, per la prima volta dopo il 1939, il gran consiglio fascista.
Nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 il gran consiglio fascista approva un ordine del giorno che destituisce Mussolini da ogni incarico e affida al re Vittorio Emanuele III il comando delle Forze armate. Lo stesso giorno Mussolini viene arrestato e mandato al confino prima a Ponza, poi in Sardegna alla Maddalena e infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso.
Il maresciallo Badoglio riceve dal re tutte le cariche del duce e il 27 luglio il "Popolo d'Italia'' massimo organo di stampa fascista annuncia al paese che "La guerra continua. L'Italia mantiene fede alla parola data''.
La notizia suscita in tutto il Paese una forte indignazione popolare nelle masse che speravano che con la caduta del fascismo sarebbe finita anche la guerra.
Le masse popolari ormai allo stremo non sono più disposte a subire sulla propria pelle le immani conseguenze della guerra che semina morte e distruzione in ogni angolo del Paese.
A partire dal 27 luglio, Badoglio cerca di contenere la ribellione e ordina lo scioglimento del Partito nazionale fascista e del Tribunale speciale. Ma nonostante ciò l'ondata di protesta contro il fascismo, l'esercito e la monarchia che hanno portato il Paese alla catastrofe non si ferma e in tutto il Paese si moltiplicano le manifestazioni di massa contro la guerra.
In varie regioni si assiste alla nascita delle prime brigate partigiane che da sole, come il caso delle storiche 4 Giornate di Napoli, riescono a liberare vasti territori e numerose città dai nazi-fascisti ancor prima dell'arrivo degli Alleati americani.
L'8 settembre '43 il re e Badoglio sono costretti alla resa, firmano l'armistizio con gli alleati anglo-americani e fuggono vigliaccamente da Roma per Brindisi consegnando l'Italia in mano ai tedeschi che occupano militarmente il Paese e danno inizio a una serie infinita di saccheggi, distruzioni e efferati eccidi.
Il 12 settembre del '43 i paracadutisti nazisti aiutati da alcuni ufficiali fascisti dei carabinieri riescono a liberare con un blitz Mussolini col chiaro intento di formare un governo fantoccio nei territori centrosettentrionali occupati dai tedeschi.
Il 18 settembre la radio di Monaco trasmette il programma di fondazione della Repubblica sociale italiana (Rsi) letto dallo stesso Mussolini che giura servile fedeltà alle orde di occupazione hitleriane, conferma la volontà di continuare la guerra al fianco dei nazisti e rilancia in grande stile la campagna antisemita e la repressione dei partigiani e di tutti i loro fiancheggiatori.
Il 23 settembre si costituisce ufficialmente il governo della Rsi con sede nel comune di Salò (Brescia) e Mussolini, rientrato nel frattempo in Italia, si autoproclama capo dello Stato, del governo e duce del nuovo partito fascista repubblicano.
Al generale Rodolfo Graziani viene affidato il compito di riorganizzare l'esercito con armi e istruttori tedeschi. Alessandro Pavolini è nominato segretario del neocostituito partito fascista.
Dei 180 mila giovani chiamati alla leva nel novembre del '43 solo 87 mila si presentano. Tutti gli altri disertano, fuggono in montagna e vanno ad ingrossare le file dei partigiani e nonostante i rastrellamenti compiuti congiuntamente alle truppe naziste Graziani non riesce a riorganizzare l'esercito e a portare a termine il suo programma.
Del resto ai tedeschi, che occupano militarmente l'Italia e non vedono di buon occhio la formazione di un nuovo esercito italiano autonomo, interessa prima di tutto che i fascisti della Rsi si adoperino come truppe camellate per costringere i giovani italiani a servire i tedeschi nei lavori di costruzione delle difese, delle vie di comunicazione, per impiegarli come forza-lavoro nella produzione bellica e soprattutto per le azioni di lotta contro i partigiani.
Non a caso l'unico programma che viene portato a termine dalla Rsi è quello di Pavolini che ricostituisce le famigerate brigate nere, i "volontari della morte'', le camicie nere, i marò e le SS italiane. Mentre il ministro degli Interni Guido Bufforini-Guidi mette insieme la peggior feccia, gli irriducibili del ventennio fascista per ricostituire la polizia, i paracadutisti e il battaglione Mussolini. Fra tutti si distingue il principe nero Junio Valerio Borghese, fucilatore e torturatore di partigiani, che organizza la decima Mas come corpo speciale antipartigiano al servizo dei tedeschi.
Un'accozzaglia di spioni, sicari, torturatori, collaborazionisti, delinquenti e banditi della peggior specie che saccheggiano e bruciano interi paesi, fanno da delatori consegnando ai tedeschi i partigiani e gli antifascisti, seviziano, torturano, arrestano e uccidono familiari e parenti, donne, vecchi e bambini e chiunque sia sospettato di collaborare con la lotta di liberazione.
Molti di questi che Ciampi e Violante oggi definiscono "i bravi ragazzi di Salò'' sono in realtà i peggiori nemici delle masse lavoratrici che sanno benissimo ciò che stanno facendo e non sono certo in "buona fede''. Non a caso molti di questi "bravi ragazzi'' continueranno per tutta la loro esistenza la loro odiosa opera anticomunista e negli anni successivi alla Liberazione i loro nomi spunteranno fuori fra gli elenchi degli arruolati di Gladio e della P2, invischiati nei vari tentativi di golpe dal 1964 in poi e nello stragismo fascista.
Boves, Marzabotto, Fosse Ardeatine, insieme all'assassinio di altre centinaia di migliaia di martiri antifascisti torturati e massacrati senza pietà sulle montagne, giustiziati con esecuzioni sommarie nelle carceri, per le strade, nei campi, impiccati sui pali della luce e esposti nella pubblica via come monito verso chi osava ribellarsi alle loro nefandezze, sono solo alcuni esempi della ferocia con cui agivano gli aguzzini in camicia nera della "repubblica di Salò''.
Pavolini durante il suo discorso introduttivo al congresso di Verona del 14 novembre '43 rispolvera e rilancia in grande stile lo squadrismo fascista degli anni '20 e esorta i repubblichini a obbedire ciecamente ai tedeschi e a non avere pietà dei partigiani. "Lo squadrismo - conclude Pavolini - è stato la primavera della nostra vita, e chi è stato squadrista una volta lo è per sempre''.
L'8 settembre e la nascita della Rsi segnano uno spartiacque profondo fra fascismo e antifascismo, fra chi lotta per la libertà e liberazione dell'Italia dal giogo nazi-fascista e chi invece in nome della difesa dell'"onore e della patria'' è servo dei nazisti e si macchia di efferati crimini.
Nonostante la coscrizione obbligatoria e la pena di morte per i disertori, milioni di uomini ebbero il coraggio di ribellarsi, si dettero alla macchia e preferirono rischiare la vita piuttosto che arruolarsi nell'esercito della Rsi al soldo dei tedeschi.
I repubblichini invece scelsero volontariamente di schierarsi contro il proprio popolo e contro la propria Patria. Altro che "patrioti che fecero scelte diverse credendo di servire ugualmente l'onore della propria patria e l'unità d'Italia''.
ANPI
La Repubblica di Salò nasce in un frenetico balletto di consultazioni e di ambizioni conflittuali tra i gerarchi del dissolto regime, sotto la diretta supervisione tedesca e in un contesto di subordinazione alle esigenze militari ed economiche del Reich. Mussolini, portato in Baviera dopo essere stato liberato dai tedeschi, discuteva con i suoi interlocutori della futura sovranità di una nuova Repubblica fascista nelle vesti di capo di un governo provvisorio legittimato dalla sola forza della Wehrmacht che lo aveva liberato dal Gran Sasso e che occupava ormai tutta la penisola.
Il 15 settembre 1943 la radio comunica che "Benito Mussolini ha ripreso oggi la suprema direzione del fascismo in Italia", mentre viene dato ordine a tutte le organizzazioni del partito di appoggiare attivamente l’esercito germanico. Tre giorni dopo in un discorso radiofonico da Monaco, lo stesso Mussolini, annunciando la rinascita di uno stato fascista, indica il compito di riprendere le armi al fianco della Germania e del Giappone.
Il 23 settembre, data ufficiale di nascita della Repubblica di Salò, Mussolini rientra in Italia dove si sistema alla Rocca delle Caminate.
Contemporaneamente i tedeschi articolano il regime di occupazione militare. Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, dirama un’ordinanza in cui dichiara "il territorio dell’Italia a me sottoposto territorio di guerra" e subordina alle sue direttive "le autorità e le organizzazioni civili italiane". Le province di Udine, Gorizia e Trieste ("Zona di operazioni Litorale Adriatico") vengono affidate al Gauleiter della Carinzia e quelle di Bolzano, Trento e Belluno ("Zona di operazioni delle Prealpi") a quello del Tirolo e vi viene perseguita una politica sistematica di germanizzazione in vista di una futura annessione alla "grande Germania". Le due zone sono escluse dall’autorità di Salò: la nascita della Rsi coincide dunque con la cessione di fatto di ampie aree del paese allo straniero.
Il progetto tedesco di "satellizzazione economica e politica" dell’Italia si manifesta fin dai primi giorni che seguono l’armistizio dell’8 settembre, con un Paese ridisegnato in diverse realtà politico-amministrative e con un solo denominatore comune: l’asservimento alle esigenze belliche dell’occupante. Di questo progetto la Repubblica di Salò costituisce il necessario paravento diplomatico e propagandistico, con una forza militare del tutto subalterna ai tedeschi.
la guerra in spagna
L'ITALIA FASCISTA NEL CONFLITTO SPAGNOLO
Rossella Ropa
Queste pagine si propongono di ripercorrere, in modo certo parziale, i principali snodi dell'intervento fascista nella guerra civile spagnola. È sembrato necessario scandirne le tappe a fronte di una perdita del senso, del carattere che questo ebbe. Il tentativo è forse ambizioso ma è nostra convinzione che restituire concretamente, attraverso la visione del materiale documentario, il racconto della guerra possa rendere evidente il suo significato di aggressione: l'appoggio dato a una ribellione militare contro un governo democraticamente eletto, l'attacco del fascismo contro la democrazia. Vale la pena ribadire quanto fu essenziale l'aiuto italiano per la vittoria nazionalista: si pensi soltanto all'invio, 13 giorni dopo la rivolta, dei 12 aerei Savoia Marchetti S. 81 che facilitarono il trasferimento di un primo consistente contingente di truppe nazionaliste dal Ma-rocco alla penisola iberica, in un momento estremamente delicato per i militari rivoltosi, mutando le sorti del colpo di stato. Nella decisione del duce di accorrere in aiuto di Franco si intrecciarono in modo inestricabile vari fattori di ordine politico, strategico e ideologico. Se l'intervento fascista può essere compreso nel contesto del mantenimento degli equilibri nel Mediterraneo, d'altra parte non è possibile ignorare che, al tempo stesso, forniva l'opportunità al regime di diffondere il proprio credo ideologico oltre i confini nazionali. Impossibile infatti non leggere nelle azioni dell'ambasciatore italiano a Salamanca Roberto Cantalupo, nelle manovre politiche di Arconovaldo Bonacorsi alle Baleari, nelle varie missioni degli emissari del regime, quella di Roberto Farinacci in particolar modo, il tentativo da par-te del regime di influenzare la configurazione politica e sociale della Spagna che fu impedita soltanto dalla ferma "resistenza" di Franco. Nella prospettiva di una futura possibile espansione dell'ideologia fascista, il regime poi consolidava i suoi rapporti con la Germania di Hitler, rafforzamento culminato nel maggio 1939 con la firma del "Patto d'acciaio". La guerra spagnola offrì infatti un'eccellente base per la collaborazione italo-tedesca che fu coordinata da subito: già il 28 agosto del 1936 il capo del servizio segreto militare tedesco, ammiraglio Wilhelm Canaris, prendeva accordi con Mario Roatta, capo del Servizio Informazioni Militari, per meglio organizzare gli aiuti da inviare in Spagna. Sul piano interno la partecipazione italiana a fianco dei nazionalisti poteva essere un'ulteriore occasione per plasmare lo spirito dell'uomo nuovo fascista: "Quando finirà la Spagna, inventerò un'altra cosa: ma il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento". Nella logica di Mussolini, gli italiani dovevano sviluppare una nuova "coscienza" adatta al loro essere "fascisti" e cittadini di una "potenza imperiale", vale a dire portatori di una visione ideologica, contenente in sé "fondamentali valori universali", che avrebbe dovuto espandersi ed allargare la propria influenza fuori della patria, attraverso una politica espansionistica di aggressione militare. Inoltre è noto che la ragione strumentalmente adottata dal regime per giustificare l'intervento, ad uso interno ed esterno, fu prettamente ideologico-propagandistica: la "crociata antibolscevica". Secondo la vulgata fascista, l'insurrezione militare era stata resa necessaria dalle condizioni di brutale anarchia in cui il paese era stato gettato dal malgoverno repubblicano. Tale anarchia, poi, avrebbe rappresentato un pericolo mortale non solo per la Spagna, ma per l'Europa intera, per la civiltà occidentale e cristiana, in quanto non era una semplice conseguenza della folle politica demagogica e della inettitudine del governo repubblicano, ma rispondeva ad un "piano organico" messo in opera dal comunismo internazionale, ad una vera e propria "congiura" diretta a fare della Spagna il secondo braccio di una gigantesca tenaglia che avrebbe dovuto stritolare il continente ed imporre sulle sue rovine il dominio moscovita. Si insisteva, dunque, sul carattere preminente della lotta di Franco come difesa della civiltà europea, identificando ad arte la Repubblica spagnola come focolaio di comunismo. Ai motivi strategici, politici e ideologici fin qui elencati si deve infine aggiungere la necessità per il regime di affermare il proprio prestigio in campo internazionale proprio per una delle caratteristiche precipue che il conflitto venne presto ad assumere: vale a dire di lotta contro il fascismo. Ciò spiega in parte la persistenza dell'impegno a favore di Franco, l'insistente pretesa che le truppe italiane costituissero un corpo autonomo sotto comando italiano e le reiterate richieste perché venisse riconosciuto il contributo fascista alla vittoria dei nazionalisti, oltre a confermare la necessità di scatenare una massiccia campagna propagandistica improntata a sostenere l'intervento del regime in Spagna.
Le guerre coloniali del fascismo
Nello stesso giorno in cui Mussolini assume il potere, il 30 ottobre 1922, Rodolfo Graziani occupa Jefren, nell’entroterra tripolino. Si tratta di un’operazione tesa alla riconquista della Libia e avviata dal ministro liberale delle Colonie, Amendola. Un episodio significativo, che dimostra come il passaggio tra lo Stato liberale e il regime fascista avvenga, in materia di politica coloniale, senza svolte particolarmente radicali, in un quadro di sostanziale continuità. La Somalia, del resto, era già stata annessa all'Italia fin dal 1904. Una continuità sottolineata dallo stesso Graziani, in una testimonianza di molti anni dopo: "Servivo quindi la Patria, nel regime liberale, con lo stesso ardore col quale continuai a servirla poi nel regime fascista".
In realtà quando giunge al potere Mussolini non ha ancora elaborato con precisione una propria politica coloniale e ancora per alcuni anni l’assenza di un progetto originale non determinerà alcuna autentica novità rispetto alla politica coloniale della liberaldemocrazia.
Le prime avvisaglie del cambiamento si hanno all’inizio del 1926. In un articolo dello stesso Mussolini su "Gerarchia", l’urgenza dell’espansione coloniale viene indicata come obiettivo prioritario: "Fede nella rivoluzione fascista che avrà nel 1926 il suo anno napoleonico…fede insonne e armata". Il duce ha superato la crisi del delitto Matteotti e instaurato la dittatura, la sua politica estera può quindi delinearsi con maggiore precisione. La prima occasione è il viaggio in Tripolitania nell’aprile del 1926, dove di fronte alla folla che gremisce il teatro Miramare di Tripoli, Mussolini proclama che "noi abbiamo fame di terre perché siamo prolifici…" Il discorso suscita attese e forti emozioni in Italia, mentre Smirne e la Turchia paiono essere i primi obiettivi. Ma le pressioni di Francia e Inghilterra mitigano gli ardori del regime e Giuseppe Bottai si affretta a dichiarare che potenza non significa necessariamente guerra, "può essere, anzi, la pace operosa e feconda…". In effetti il 1926 avrà ben poco di napoleonico e passerà tra proclami e smentite, audacia verbale e marce indietro.
I discorsi incendiari del duce tornano alla ribalta nel 1929. Questa volta alle parole seguono i fatti: in Libia viene occupata la regione del Fezzan, mentre Badoglio scatena la repressione in Cirenaica con la deportazione e la reclusione in campi di concentramento di 80 mila persone. Nel solo biennio 1930-31 repressione e tifo petecchiale, contratto nei campi di concentramento, uccidono dai 40 ai 60 mila abitanti del Gebel, un terzo dell’intera popolazione della Cirenaica. Il settantenne Omar el Muktar, leggendario capo della guerriglia, viene impiccato di fronte a ventimila deportati.
All’inizio degli anni Trenta la strategia coloniale fascista comincia a prendere forma con un programma che prevede l’occupazione integrale dell’Etiopia. Il ministro Grandi, considerato troppo disponibile verso la Francia, viene congedato e per la diplomazia italiana si avvia un nuovo corso, mussoliniano e revanscista.
Anche la macchina propagandistica, prima ancora di quella militare, si mette in moto puntando sulle generazioni più giovani e sull’impulso alla campagna demografica per raggiungere "…quei 60 milioni di abitanti – dichiara Mussolini – senza i quali non si fa l’impero". Mentre si applica con pugno di ferro la politica del terrore verso la resistenza, si cerca di dirottare le correnti migratorie (ancora 100 mila unità annue tra il 1931 e il ’34) verso le colonie, con un successo parziale ma con il risultato di far puntare l’attenzione su di esse e sul loro futuro sviluppo, in definitiva a rendere popolare il concetto di imperialismo fascista. Un imperialismo rozzo e brutale, dilettantesco e improvvisato e che, come osserva Carlo Zaghi, "nella sua essenza e nelle sue finalità, non ha né lo slancio culturale e tanto meno le illusioni egualitarie, democratiche e umanitarie di quello francese, né il pragmatismo e la duttilità di quello britannico…e che rifletteva in pieno il carattere, gli umori, la superficialità, lo scarso bagaglio culturale e ideologico dell’uomo che l’ispirava e lo guidava".
Il manifesto della razza (1938)
(Da "La difesa della razza", direttore Telesio Interlandi, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, p. 2).
Il ministro segretario del partito ha ricevuto, il 26 luglio XVI, un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, che hanno, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare, redatto o aderito, alle proposizioni che fissano le basi del razzismo fascista.
1. Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi.
Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.
2. Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.
3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
4. La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L'origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell'Europa.
5. È una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l'Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d'Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l'Italia da almeno un millennio.
6. Esiste ormai una pura "razza italiana". Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l'Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
7. È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l'Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.
8. È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall'altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.
9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L'unione è ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall'incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
L'ultimo scritto di Benito Mussolini - 27 aprile 1945
"La 52a Brigata Garibaldina mi ha catturato oggi venerdì 27 aprile sulla piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto. Mussolini".
Queste poche righe, vergate di pugno da Benito Mussolini, sanzionano l'epilogo del ventennio fascista e della seconda guerra mondiale, almeno per quanto riguarda il nostro paese. Poche ore dopo Mussolini sarà fucilato e l'Italia volterà pagina.
Del documento, noto agli storici fin dall'immediato dopoguerra e diverse volte pubblicato, si era perduta ogni traccia da diversi decenni. Da qualche giorno esso è di nuovo al sicuro, dopo essere stato donato all'archivio milanese dell'INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia) "per essere messo a disposizione degli studiosi".
Si tratta di un biglietto vergato a penna su un foglio protocollo. L'inchiostro della penna è più marcato all'inizio che alla fine. La grafia di Mussolini tradisce l'emozione e la stanchezza di quelle ore, ma è indubbiamente la sua, la stessa di migliaia di documenti autografi giunti fino a noi. L'unico dubbio di interpretazione riguarda una parola: Quell"usatomi", che per alcuni potrebbe essere anche "avutomi", espressione che però sarebbe incongrua nel contesto dello scritto.
Rispetto alle riproduzioni conosciute, risalenti al primo dopoguerra, l'originale del documento presenta una vistosa novità: due grosse strisce di nastro adesivo di carta incollate sul retro. Evidentemente a furia di passare di mano in mano il foglio tendeva a strapparsi - o addirittura si era già strappato - e qualcuno ha pensato bene di salvaguardarlo in questo modo. Ignoriamo in che data sia stato aggiunto questo nastro: di certo nelle riproduzioni pubblicate nel dopoguerra non ve ne era traccia. Il grasso del collante ha fatto emergere, rendendolo molto visibile, il marchio del blocco di carta da cui è stato tratto il foglio - Binda - impresso in trasparenza.
Per il resto il documento, a un primo esame, appare abbastanza in buono stato di conservazione. Saranno ora gli esperti dell'INSMLI a occuparsi della sua conservazione.
Le "imprese" della Decima MAS
"Aveva tentato con le armi di colpire la Decima": questo il macabro cartello imposto al collo del partigiano biellese Ferruccio Nazionale, impiccato dagli uomini di Borghese sulla piazza del municipio di Ivrea il 9 luglio 1944. Il corpo di Nazionale fu lasciato sulla piazza a lungo, a scopo terroristico
L'eccidio di Valmozzola (PR)
Il processo di Roma confermò come gli 8 partigiani fucilati il 17 marzo 1944 a Valmozzola fossero stati crudelmente seviziati dagli uomini del Borghese, degni emuli delle SS naziste. Mario Galeazzi, sopravvissuto alla strage poté testimoniare di queste sevizie.
Da notare che gli 8 partigiani fucilati non avevano nulla a che vedere con l'attacco di Valmozzola (dov'era rimasto ucciso, qualche giorno prima, un ufficiale della Decima MAS) e i fascisti lo sapevano bene, in quanto li avevano sorpresi e catturati sul Monte Barca, in una località distante parecchie giornate di marcia. Quell'uccisione rivestiva quindi carattere esclusivamente terroristico.
Il processo iniziato a Roma 1'8 febbraio 1948 contro Junio Valerio Borghese portò a conoscenza dell'opinione pubblica alcuni dei servizi più significativi resi dalla "Decima MAS" agli invasori tedeschi.
Nella sentenza di rinvio a giudizio le imputazioni erano, tra l'altro, di aver compiuto "continue e feroci azioni di rastrellamento di partigiani e di elementi antifascisti in genere, talvolta in stretta collaborazione con le forze armate germaniche, azioni che di solito si concludevano con la cattura, le sevizie particolarmente efferate, la deportazione e la uccisione degli arrestati, e tutto ciò sempre allo scopo di contribuire a rendere tranquille le retrovie del nemico, in modo che questi più agevolmente potesse contrastare il passo agli eserciti liberatori".
Diversi gli episodi di violenza criminale addebitati alla formazione di Junio Valerio Borghese. Tra questi quelli di Valmozzola, con uccisione di dodici partigiani in combattimento ed esecuzione sommaria di altri otto partigiani catturati; di Crocetta del Montello, con uccisione di sei partigiani e sevizie efferate di altri arrestati; di Castelletto Ticino, con l’uccisione di cinque ostaggi; di Borgo Ticino, con l’uccisione di dodici ostaggi, oltre a "ingiustificate azioni di saccheggio ed asportazione violenta ed arbitraria di averi di ogni genere, ciò che il più delle volte si risolveva in un ingiusto profitto personale di chi partecipava a queste operazioni".
Condannato a una pena più che mite, Borghese poté riprendere, dopo un breve soggiorno in carcere, le sue attività contro la Repubblica.
L'eccidio di Crocetta del Montello (TV)
Al processo contro Borghese il teste Adriano Calabretto riferì sugli interrogatori dei partigiani poi uccisi a Crocetta del Montello (Treviso): "Costoro, nudi fino alla cintola, uno alla volta, venivano posti con la schiena su di un piccolo sgabello e il loro corpo gettato all'indietro, finché il capo non sfiorasse il terreno e fino ad assumere la posizione a bilancia. Poi costoro, sempre a torso nudo. venivano frustati con un nerbo e poi venivano portate delle latte di benzina per sottoporli alla tortura del fuoco [...]. Gli interrogatori cominciavano alle ore venti e continuavano ininterrottamente fino alle tre del mattino ed io sentivo le grida di coloro che venivano interrogati, unite a colpi di pistola".
L'eccidio di Castelletto Ticino (NO)
A Castelletto Ticino (PV), dove il 2 novembre 1944. in seguito alla cattura di un ufficiale della Decima MAS, per rappresaglia furono trucidati 5 giovani garibaldini, Ongarillo Ungarelli, stretto collaboratore di Borghese, volle che questi fossero fucilati alla schiena e uno per uno, in modo che gli ultimi assistessero alla morte dei primi. L'intera popolazione presente fu obbligata a partecipare allo "spettacolo punitivo".
Via via che un partigiano cadeva, un ufficiale gli dava il colpo di grazia. All'inizio di quel massacro le vittime gridarono tutte insieme: "Viva l’Italia, viva i partigiani!".
L'eccidio di Borgo Ticino (NO)
Sull'eccidio di Borgo Ticino nel corso del processo a Junio Valerio Borghese si ebbero numerosi particolari: tra l'altro fu messo in evidenza che, quando dovevano compiere azioni di rappresaglia, gli uomini della "Decima" indossavano uniformi tedesche. Dal che si può desumere che altre stragi genericamente attribuite ai "tedeschi" furono in realtà perpetrate dal Borghese e dai suoi uomini su mandato germanico. Si seppe inoltre che, dopo l'uccisione dei 12 giovani eseguita per ordine diretto del generale tedesco Valdemar Krumhar, l'abitato di Borgo Ticino fu fatto sgomberare e gli uomini della "Decima", da vere truppe mercenarie, poterono abbandonarsi al sistematico saccheggio delle case e degli averi degli abitanti del quartiere.
Una carriera di furti e rapine
Il carattere chiaramente delinquenziale della Decima MAS impensierì perfino le autorità collaborazioniste, per il supplementare discredito che la turbolenta formazione attirava sul regime repubblichino.
In un "appunto per il Duce" il prefetto di Milano Mario Bassi scriveva: "Continuano con costante preoccupazione le azioni illegali commesse dagli appartenenti alla X Mas. Furti, rapine, provocazioni gravi, fermi, perquisizioni, contegni scorretti in pubblico, rappresentano quasi la caratteristica speciale di questi militari. Anche il 12 novembre 1944, tra l'altro, verso le ore 20 quattro di essi si sono presentati in un magazzino di stoffe: dopo aver immobilizzato il custode ne hanno asportato quattro colli per un ingente valore [...]. La cittadinanza, oltre ad essere allarmata per queste continue vessazioni, si domanda come costoro, che dovrebbero essere sottoposti ad una rigida disciplina militare, possano agire impunemente e senza alcuna possibilità di punizione [...]. Sarebbe consigliabile pertanto, che tutto il reparto, comando compreso, sia fatto allontanare da Milano".
Per richiamarlo all'ordine, furono inflitti al Borghese 30 giorni di "arresto in fortezza", per non aver saputo tenere la disciplina tra i suoi reparti.
LAGERDopo 55 anni una lapide ricorda i crimini fascisti nel campo di Arbe
Nel Lager di Mussolini sull'isola croata furono rinchiusi 15.000 internati. Il regime di detenzione era così duro che vi furono circa 1.500 morti. Una pagina di storia rimossa, all'insegna del mito "Italiani brava gente".
Di Teresa Grande.
Il problema della memoria dei crimini che gravano sul passato di una Nazione implica la questione della scrittura della storia, ovvero di ciò che del passato fa storia e fonda, in senso ampio, gli orientamenti sociali e culturali del presente.
La storia ufficiale e le idee dominanti che circolano, soprattutto attraverso i media, rispetto al passato di una Nazione ne strutturano una immagine che tende ad essere omologante e ad eleggere un "oggetto unico" di memoria che non corrisponde affatto alla somma algebrica delle singole memorie in questione (i diversi soggetti coinvolti e le tappe storiche che vi si riferiscono). I discorsi ufficiali sul passato sono pertanto verità parziali, spesso tentativi di autoglorificazione in cui è possibile riconoscere le idiosincrasie e le contraddizioni, i sintomi di verità ben più grandi e inquietanti, rimosse da una memoria illusoriamente portata a circoscrivere la barbarie nell'altro e ad evitarne l'integrazione nella nostra soggettività storica.
La memoria di una Nazione si compone dunque di un "racconto" costituito da parti "scelte" del passato: alcuni eventi vengono esaltati, altri rimossi. Queste "parti scelte" non sono pertanto frutto del caso, ma sono strutturate e interpretate in modo tale da tracciare le grandi linee di quella che possiamo chiamare una "singolarità nazionale", la delimitazione cioè dei confini di significato entro cui è possibile inscrivere il giudizio sul passato e su quanto ad esso è legato.
In questa prospettiva, ad esempio, la specificità del fascismo italiano nella vicenda delle persecuzioni razziali durante la Seconda guerra mondiale non è stata definita, nel dopoguerra e negli anni successivi, sulla base della valutazione dei crimini effettivamente commessi dagli italiani, ma è stata costruita, al contrario, operando un confronto costante con il fenomeno della deportazione e dei Lager nazisti. Eleggendo come "oggetto unico" della memoria della persecuzione razziale il Lager tedesco, questo confronto (insieme alla diffusione del mito degli "italiani brava gente"), ha banalizzato e relativizzato i crimini compiuti dall'Italia fascista ed ha costruito così una "singolarità nazionale" forgiata sul modello del "male minore".
Se negli ultimi anni una parte della storiografia italiana sta criticando e tentando di smontare questo modello del "male minore" tramite, ad esempio, lo studio delle misure di internamento adottate dal governo italiano prima dell'8 settembre del 1943, quindi nel periodo precedente l'occupazione tedesca, prendono forma tuttavia altri modelli di banalizzazione e tentativi nuovi di cancellazione dei crimini italiani. Pensiamo a questo proposito al fenomeno recente di diffusione del "mito delle foibe" operato da una parte del mondo intellettuale e politico italiano: il giudizio sul passato non si fonda qui sul confronto con un "male peggiore", ma è emesso addirittura tacendo sulle proprie colpe e, di conseguenza, ignorando l'ineludibile concatenazione storica degli eventi. Si assiste infatti in Italia ad una attitudine generalizzata a parlare del "caso foibe" (l'uccisione di italiani da parte dei partigiani di Tito nel periodo a cavallo della primavera del 1945), decontestualizzando questa vicenda da quella più generale dell'aggressione nazi-fascista della Jugoslavia nella primavera del 1941 e dalle successive politiche di "pulizia etnica" intraprese dal governo di Mussolini: l'internamento delle popolazioni delle zone jugoslave annesse all'Italia in campi di concentramento ed altre misure ad esso collegate come ad esempio il saccheggio e l'incendio di villaggi e l'uccisione di ostaggi.
Intessuto attorno al silenzio di questi crimini, il "mito delle foibe" rappresenta un vero e proprio tentativo di costruire un discorso "restauratore" riguardo alla vicenda del dominio italiano sul territorio jugoslavo occupato e all'atteggiamento fascista nei confronti degli "allogeni", un discorso che, riconoscendo all'Italia solo lo statuto assoluto di "vittima" e non quello, antecedente, di "aggressore", mira a ristabilire una presunta integrità e una dignità storica impossibili da provare.
Le polemiche suscitate dalla costruzione del "caso foibe" - che si trova attualmente ad un crocevia di giudizi storici, politici e giudiziari - rendono particolarmente importante ristabilire l'intera verità storica, precisare cioè quali sono state le responsabilità dell'Italia che pesano sul destino subito dalle popolazioni slovene e croate prima e durante l'occupazione della Jugoslavia.
Il caso del campo di concentramento di Arbe (in croato Rab), una delle isole che costellano il lato orientale dell'Adriatico (oggi territorio della Repubblica di Croazia), è uno degli esempi più tragici dei crimini italiani commessi nei territori occupati della Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale. La sua vicenda è emblematica del modo in cui questi crimini siano praticamente assenti dalla topografia della nostra memoria nazionale e di come il silenzio in Italia contrasti con la memoria viva dei luoghi e delle popolazioni coinvolte.
Il campo di Arbe fu aperto nel luglio del 1942 ed ospitò complessivamente circa 15.000 internati tra sloveni, croati, anche ebrei. In poco più di un anno di funzionamento (il campo cessò di esistere 1'11 settembre del 1943), il regime di vita particolarmente duro causò la morte di circa 1.500 internati.
La memoria delle vittime (in maggioranza slovene) di questo campo italiano è custodita oggi da un grande cimitero memoriale sorto su una parte del campo e sul luogo che, già all'epoca, ne costituiva il cimitero. Al suo interno una cupola racchiude un mosaico, opera dello scultore Mario Preglj, che simbolizza la lotta eterna dell'uomo per la conquista della libertà. Poco lontano dal complesso commemorativo alcune sporadiche baracche, inglobate nei terreni coltivati di privati cittadini, sfuggono allo sguardo del visitatore distratto. La loro presenza è però ancora in grado di rievocare in modo autentico il progetto inquietante che l'Italia fascista aveva riservato alle popolazioni della Jugoslavia assoggettate al suo dominio.
Nel settembre di ogni anno, nella ricorrenza dell'anniversario della liberazione, questo 'luogo della memoria" ospita una sentita cerimonia a cui partecipano rappresentanti delle Repubbliche slovena e croata e nutriti gruppi di ex internati. A queste cerimonie né la società civile, né il governo italiano sono mai stati presenti.
Il silenzio da parte italiana è stato finalmente rotto il 12 settembre di quest'anno, in occasione del 55° anniversario della liberazione del campo: la Fondazione Internazionale "Ferramonti di Tarsia" ha partecipato alla manifestazione con una propria delegazione, ed ha apposto all'ingresso del cimitero una lapide il cui testo, scritto in italiano e in croato, dichiara per la prima volta da parte italiana, sullo stesso luogo teatro di questo crimine, le colpe dell'Italia. Il testo della lapide recita: «In memoria di quanti, negli anni 1942-1943, qui finirono internati soffrirono e morirono per mano dell'Italia fascista".
Il significato particolare dell'iniziativa - che si inserisce nel quadro più ampio delle attività che la Fondazione Ferramonti ha dispiegato in questi anni per promuovere la ricerca e il recupero della memoria dell'internamento civile fascista - è stato precisato dal presidente della Fondazione Carlo Spartaco Capogreco nel discorso che ha accompagnato lo scoprimento della lapide.
L'intera cerimonia si è svolta in un clima carico di emozioni e di ricordi ancora vivi, sottolineati dalla commozione con cui, come un comune "giorno dei morti", gli ex internati e i familiari presenti depositavano fiori e corone sulle tombe delle vittime. A ragione Milan Osredkar, sloveno ed ex internato a Gonars, ha definito quello di Arbe "il più grande cimitero sloveno".
La presenza italiana ha suscitato grande soddisfazione tra le autorità politiche e i rappresentanti delle varie associazioni presenti alla manifestazione, segno, forse, della speranza che il lungo silenzio italiano su questo passato tristemente comune venga finalmente messo in discussione e che anche questa verità storica entri nel quadro del dibattito attuale sui rapporti tra l'Italia e la Jugoslavia negli anni della Seconda guerra mondiale.
Il 55° anniversario della liberazione del campo di Arbe è stato anche l'occasione per la presentazione di due pubblicazioni che il croato Ivo Kovacic e l'ex internato, e già ministro sloveno ai tempi di Tito, Anton Vratusa hanno dedicato alla vicenda di Arbe. Questi volumi vanno ad arricchire la già fiorente bibliografia sulla storia di questo campo di internamento dell'Italia fascista a cui la storiografia italiana ha, finora, prestato poca attenzione.
Ricordare la tragedia del campo di Arbe e riconoscerne le responsabilità italiane non e però solo un problema storiografico o di politica internazionale, ma anche di sensibilità civile. L'atto pioniere dell'apposizione della lapide va interpretato in tal senso come un gesto dirompente per il «risveglio" della coscienza nazionale atrofizzata, come una denuncia della mancata elaborazione della memoria (collettiva e storica) degli italiani di questo crimine dell'Italia fascista
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campi del duce Sotto il fascismo l’internamento dei civili e le deportazioni si avvicinarono allo sterminio e alla pulizia etnica.
Ne fecero le spese libici, etiopi, somali, sloveni e croati
di Carlo Spartaco Capogreco
Le deportazioni e l’internamento dei civili erano pratiche ben note all’Italia monarchico-liberale: si pensi, per esempio, alle migliaia di libici deportati a Ustica e alle Tremiti dopo la rivolta di Sciara Sciat del 1911, o al campo-prigione di Nocra, istituito nel 1895 su una delle isolette che fronteggiano Massaua. Fu sotto il fascismo, tuttavia, che i campi di concentramento vennero usati in grande stile e le deportazioni si spinsero ai limiti della 'pulizia etnica' e dello sterminio.
Nel 1930, il generale Rodolfo Graziani portava a compimento la 'pacificazione' della Libia con una deportazione in massa che non ha precedenti nella storia dell’Africa moderna: quasi 100 mila civili seminomadi del Gebel [un ottavo dell’intera popolazione libica di allora] furono rinchiusi in 15 enormi campi di concentramento realizzati nella Sirtica. Dopo tre anni di segregazione penosa, rimase in vita poco più della metà dei deportati. Nel 1935, a poche settimane dall’inizio del conflitto italo-etiopico, un nuovo campo di concentramento italiano venne aperto a Danane, in Somalia. Sino alla sua chiusura [avvenuta nel marzo 1941], vi si avvicendarono circa 6.500 tra etiopi e somali: per la fame e le disastrose condizioni igienico-sanitarie poco meno della metà degli internati perse la vita.
Durante la Seconda guerra mondiale, campi per civili furono realizzati sia nel Regno d’Italia che nei territori occupati da truppe italiane. Nella penisola ne funzionarono di due tipi: quelli sottoposti al ministero dell’Interno [già responsabile delle colonie di confino], destinati ai vari gruppi di internati civili di guerra; quelli di pertinenza del Regio Esercito, che accoglievano deportati civili jugoslavi. Entrambi furono accomunati dalla denominazione ufficiale di 'campo di concentramento', qualifica che ritengo attribuibile ai soli campi ad amministrazione militare e non a quelli controllati dal ministero dell’Interno, da denominare, semplicemente, 'campi di internamento' – ciò che effettivamente essi furono. Tuttora poco conosciuti ai più e spesso circondati da un alone d’incredulità, i campi d’internamento, in realtà, sono da tempo ben noti agli storici e agli altri studiosi che si occupano dell’argomento: già nel giugno del 1989 chi scrive ha presentato il loro elenco definitivo al IV Convegno internazionale Italia Judaica.
Vero è che – per una serie di ragioni – quelle vicende storiche sono rimaste a lungo vittima di amnesie e di rimozioni. Generalmente attrezzati in edifici preesistenti [ville, castelli, fattorie, opifici, conventi, scuole, normali abitazioni ecc.], i campi del ministero dell’Interno ebbero una capienza media di circa 150 posti e una dislocazione geografica che ha interessato il Centrosud della penisola. In Toscana i campi d’internamento furono tre: Bagno a Ripoli, Montalbano di Rovezzano e Oliveto di Civitella della Chiana. Nelle Marche sei: Sassoferrato, Fabriano, Urbisaglia, Treia, Petriolo e Pollenza. In Umbria, un campo operò a Colfiorito di Foligno, mentre nel Lazio vennero utilizzati l’ex colonia di Ponza, quella ancora attiva di Ventotene e, in scarsa misura, il 'centro di lavoro' per confinati di Castel di Guido; campi con baraccamenti, di notevoli dimensioni, sorsero invece alle Fraschette di Alatri e a Castelnuovo di Farfa. In Abruzzo-Molise i campi furono 19: Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Tortoreto, Tossicia, Notaresco, Città Sant’Angelo, Chieti, Casoli, Marina di Istonio, Lama dei Peligni, Lanciano, Tollo, Agnone, Boiano, Casacalenda, Isernia e Vinchiaturo. Quattro in Campania: Ariano Irpino, Monteforte Irpino, Solfora e Campagna. Anche i campi pugliesi furono quattro ed ebbero sede a Manfredonia, Alberobello, Gioia del Colle e nella colonia delle Tremiti. In Lucania svolse anche funzione di campo d’internamento la colonia di Pisticci, mentre in Calabria venne costruito un campo ad hoc a Ferramonti, non lontano da Cosenza. In Sicilia, infine, furono appositamente riconvertiti i locali delle ex colonie di Ustica e di Lipari. In Emilia-Romagna funzionarono gli unici due campi d’internamento dell’Italia settentrionale: Montechiarugolo e Scipione di Salsomaggiore.Italiani o stranieri che fossero, i civili internati dal ministero dell’Interno non furono mai sottoposti a crudeltà o violenze premeditate. Fino all’8 settembre 1943, neppure gli 'ebrei stranieri' [definizione usata allora dalla burocrazia per indicare gli israeliti provenienti da stati retti da regimi antisemiti], quantunque bollati dal fascismo come 'elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari', vennero sottoposti a misure persecutorie particolari. Tant’è che le stesse organizzazioni ebraiche, dopo le prime reazioni piuttosto allarmate, finirono per tranquillizzarsi, considerando sostanzialmente l’internamento in Italia – in quel frangente – come 'il male minore'.
Tuttavia il soggiorno nei campi – come ebbe a scrivere uno dei primi internati – 'se materialmente non era terribile, spiritualmente rappresentava una sofferenza per i disagi morali e le preoccupazioni per l’avvenire'. Inizialmente il sussidio di lire 6,50, fornito dal governo agli internati indigenti, consentiva loro di procurarsi un vitto accettabile, poiché, sul cliché di quanto sperimentato nelle colonie di confino, anche nei campi vennero realizzate mense autogestite e altre strutture cooperative. Ma, dalla seconda metà del 1941, la penuria alimentare e l’affollamento degli alloggiamenti cominciarono a incalzare soprattutto per quanti erano internati nei campi maggiori [i più affollati e gli unici con recinzione] e avevano minori occasioni di scambio con i popolani e di approccio con il mercato nero. A fianco di un internamento ufficiale e 'regolare' gestito dal ministero dell’Interno, nell’Italia fascista ve ne fu anche uno 'selvaggio', messo in atto dalle forze armate. Esso si realizzò, per la sua gran parte, nei territori del Regno di Jugoslavia che furono occupati o annessi dall’Italia in seguito all’invasione nazifascista del 6 aprile 1941. In quelle zone, nel quadro di un’occupazione violenta ed esplicitamente razzista, l’Esercito Italiano fece frequente ricorso a metodi ritenuti tipicamente nazisti, quali l’incendio di villaggi, le fucilazioni di ostaggi e le deportazioni in massa dei civili in speciali campi di concentramento ubicati sia in Italia che negli stessi territori occupati. Dell’intero capitolo dell’internamento fascista, la parte a gestione militare fu preponderante sul piano quantitativo e ingiustificabile sul piano del diritto: per via delle dure condizioni di vita dei deportati, infatti, furono a essa addebitate reiterate violazioni del diritto internazionale bellico e dello stesso codice penale militare di guerra italiano. Non a caso, alla fine della seconda guerra mondiale, i principali responsabili e organizzatori di quei campi e di quel sistema di deportazione impiantato dal Regio Esercito [tra i primi, il generale Mario Roatta, generalmente noto come 'protettore di ebrei'] vennero additati come criminali di guerra. Ma la mancanza di una 'Norimberga italiana' ha fatto sì che le accuse di 'internamento in condizioni disumane' [come quelle relative ad altri crimini], inoltrate alle apposite commissioni internazionali dal governo jugoslavo e da quello di altre nazioni aggredite dall’Italia, cadessero praticamente nel vuoto.
Tra i campi gestiti dalle autorità militari, in Italia quello dalle maggiori dimensioni [ospitava mediamente 5 mila civili] operò, dal marzo 1942, a Gonars [Udine], dove, in un anno e mezzo di attività, persero la vita più di 400 deportati. Nell’estate dello stesso anno due campi di circa 3 mila e 4 mila posti furono attrezzati in altrettante caserme dell’esercito a Monigo di Treviso e a Chiesanuova di Padova. Tra il 1942 e il 1943, altri due grandi campi vennero istituiti a Renicci di Anghiari [in provincia di Arezzo] e a Visco [allora in provincia di Trieste]. Dal gennaio 1943 venne utilizzato per gli 'allogeni' [così venivano indicati, con disprezzo, gli appartenenti alle minoranze slovena e croata che il fascismo, per anni, cercò rozzamente di italianizzare] anche l’ex campo per prigionieri di guerra n. 93, sito a Cairo Montenotte [Savona]. Nello stesso periodo in Umbria venne ingrandito e destinato a deportati montenegrini il campo di Colfiorito, nel comune di Foligno. Tra i campi fascisti operanti in territorio jugoslavo, voglio ricordare quello allestito sull’isola di Arbe, con oltre 11 mila internati, del quale ho già riferito su Diario nel settembre 1998, in occasione del 55° anniversario della sua liberazione. Nel campo di Arbe, definito 'di sterminio' da alcuni autori jugoslavi, per gli stenti, la fame e la mancanza di qualsiasi assistenza internazionale, persero la vita in un anno non meno di 1.400 internati civili, principalmente sloveni . Monsignor Giuseppe Srebrni, vescovo della vicina isola di Veglia, rimase estremamente impressionato da quanto visto durante una visita a quel campo: quella di centinaia di figure scheletriche, che sfinite dalla fame si trascinavano nell’improbabile ricerca di qualcosa da mangiare, era infatti una scena del tutto consueta. I modelli di riferimento dei campi italiani della Seconda guerra mondiale non vanno ricercati – come, purtroppo, assai spesso avviene – nei lager tedeschi, e neppure in quelli di altri regimi totalitari.
La 'filosofia ispiratrice' dell’internamento civile fascista non mirava, in linea di principio, allo sfinimento degli individui o allo sfruttamento del loro lavoro schiavo, ma alla 'semplice' messa al bando dei nemici, dei 'pericolosi', degli indesiderabili. Tuttavia, l’internamento realizzato dal nostro esercito nei Balcani , per la forte componente razzistica, la notevole entità delle deportazioni e le caratteristiche particolarmente negative dei campi di concentramento utilizzati, è certo più vicino ai vecchi metodi di segregazione coloniale [in particolare alla 'deriva concentrazionaria' attuata dal fascismo nel corso delle campagne per la 'riconquista' o la 'pacificazione' di taluni territori] che non al confino politico o all’internamento 'garantista' praticato dal ministero dell’Interno nei territori dell’Italia metropolitana.
Ma dell’internamento jugoslavo, come pure di quello inflitto dall’Italia alle popolazioni africane, nel dopoguerra non rimasero che tracce sbiadite nella memoria degli italiani. Nel 1965, a una delegazione di ex combattenti giunti dalla Slovenia per rendere omaggio alle spoglie mortali dei propri connazionali che persero la vita nel campo di Monigo – che aveva operato alla periferia della città di Treviso – né le autorità comunali né le associazioni partigiane seppero indicare il luogo di sepoltura di quegli sventurati. Fu proprio grazie a quella visita, del resto, che la maggior parte dei trevigiani ebbe modo di prendere coscienza della passata esistenza di un campo di concentramento nei pressi della loro città… Arthur Koestler, per dare un’idea delle condizioni di vita nei campi di concentramento non nazisti, immaginò un’unità di riferimento della quale il campo francese di Le Vernet d’Ariège [dove egli stesso era stato internato nel 1939] costituiva 'lo zero dell’ignominia'. Prendendola qui come riferimento, si può affermare a ragione che i campi del ministero dell’Interno non sconfinarono mai nel 'sottozero' della scala centigrada proposta da Koestler; lo fecero, invece, spesso e di misura, i campi allestiti dall’esercito italiano in Jugoslavia, Grecia e Albania, e qualcuno di quelli ubicati nei vecchi confini del Regno d’Italia, nei quali, per alcuni periodi, la lotta per la sopravvivenza e la morte dei deportati per la fame e le terribili condizioni igienico-sanitarie furono parte del consueto scenario quotidiano. Ritengo che la collocazione extra legem di tali strutture di concentramento appaia del tutto evidente se si considera, in particolare, che ai civili jugoslavi internati – la maggior parte dei quali furono definiti italiani 'per diritto annessione' – l’Italia negò lo status di 'sudditi nemici', privandoli così [sino alla caduta del regime fascista e quasi allo scioglimento della maggior parte dei campi] dell’assistenza del proprio governo in esilio e di qualsiasi supporto umanitario. Soltanto il 19 agosto 1943 il ministero degli Affari Esteri concesse al Comitato internazionale della Croce rossa la possibilità di assistere i civili jugoslavi internati in Italia. Ciò solo a condizione che tale atto non avesse 'carattere ufficiale de jure, ma soltanto di pratica e umanitaria azione di soccorso'.
PATTI LATERANENSIPatti Lateranensi
Denominazione sotto cui è noto il trattato stipulato (11. 2. 1929) tra il governo italiano e la Santa Sede.
L'annessione al Regno d'Italia dei territori appartenenti allo Stato Pontificio, culminata nella presa di Roma
(20. 9. 1870), aveva aperto un lungo periodo di dissidio tra il papato e il governo italiano.
All'indomani dell'occupazione di Roma lo Stato volle regolare i rapporti con la Chiesa per mezzo della cosiddetta legge delle guarentigie (13. 5. 1871), con la quale si assicurava al pontefice il libero esercizio delle sue funzioni di capo della Chiesa cattolica, riconoscendogli prerogative sovrane, tra le quali il diritto di legazione attiva e passiva, e assegnandogli una cospicua dotazione annua.
La legge delle guarentigie costituiva tuttavia un atto unilaterale del governo italiano, e papa Pio IX rifiutò di accettarla, non riconoscendo la situazione di fatto creatasi dopo l'occupazione della capitale da parte delle truppe italiane.
Si aprì così, tra Chiesa e Stato, un periodo di forti tensioni, che avrebbe largamente influenzato la vita politica del Regno d'Italia, creando una difficile situazione nazionale e internazionale. Agli atteggiamenti anticlericali di alcune forze politiche del paese si contrapponeva l'irrigidimento delle gerarchie ecclesiastiche, culminato nella formula “né eletti né elettori”, con la quale si proibiva ai cattolici di prendere parte alla vita politica.
Alcuni tentativi di comporre il dissidio tra Chiesa e Stato, messi in atto durante il pontificato di Leone XIII (1878-1903), non ebbero successo, malgrado le molte speranze suscitate.
La situazione subì un mutamento solo verso la fine dell'Ottocento.
Durante il governo di G. Giolitti iniziò infatti un progressivo riavvicinamento tra le due parti, determinato, fra l'altro, dalla comune preoccupazione di fronte alle affermazioni elettorali socialiste. Con il patto concordato da V.O. Gentiloni (1913) i cattolici diedero il loro voto ai candidati liberali, che avevano aderito ad alcuni punti programmatici (libertà della scuola, opposizione al divorzio ecc.). Il processo di distensione continuò dopo la prima guerra mondiale con l'abrogazione ufficiale del non expedit e la revoca (1920) delle disposizioni vaticane relative alle visite dei capi di Stato cattolici a Roma.
Si era giunti ormai alle soglie della conciliazione. Un primo progetto di soluzione concordataria fu trattato in forma ufficiosa tra il presidente del Consiglio V.E. Orlando e monsignor B. Cerretti, in margine alla conferenza di Versailles (28.6.1919). Tali trattative fallirono però per la caduta del gabinetto Orlando e soprattutto per la ferma opposizione del re Vittorio Emanuele III, fedele alla vecchia formula separatista.
Dopo l'avvento del regime fascista, una lettera di papa Pio XI al segretario di Stato cardinale P. Gasparri manifestò (1926), sia pure in forma implicita, la disponibilità del pontefice ad aprire trattative per risolvere l'annosa questione.
Le trattative, condotte dall'avvocato F. Pacelli per il Vaticano e da B. Mussolini e A. Rocco per il Governo italiano, portarono, attraverso l'elaborazione di vari schemi, al testo definitivo del 1929.
Gli accordi del Laterano, firmati da B. Mussolini e da P. Gasparri (11.2.1929) e quindi ratificati con una apposita legge (27.5.1929, n. 810), consistono di due protocolli: un trattato con annessa una convenzione finanziaria e un concordato.
Il trattato (in ventisette articoli e una premessa, cui seguono quattro allegati) riconosce la necessità, “per assicurare
alla Santa Sede l'assoluta e visibile indipendenza”, di costituire un territorio autonomo sul quale il pontefice possa esercitare la sua piena sovranità. Veniva così creato lo Stato della Città del Vaticano. Si confermava inoltre
l'articolo 1 dello Statuto albertino, in virtù del quale “la religione cattolica, apostolica e romana” era considerata
la sola religione dello Stato.
La persona del papa era dichiarata sacra e inviolabile, particolari privilegi venivano concessi alle persone residenti nella Città del Vaticano, e il patrimonio immobiliare della Santa Sede (di cui veniva fornito un elenco dettagliato) godeva di numerose esenzioni specie dal punto di vista tributario. La convenzione finanziaria liquidava le pendenze economiche fra le due parti mediante un cospicuo versamento da parte del governo italiano e la cessione di una congrua quantità di titoli azionari quale indennizzo dei danni subiti dalla Santa Sede con l'annessione degli Stati ex pontifici all'Italia e la conseguente liquidazione di gran parte dell'asse patrimoniale ecclesiastico.
Il concordato (quarantacinque articoli e una premessa), destinato a regolare i rapporti tra la Chiesa e lo Stato,
assicura alla Chiesa la libertà nell'esercizio del potere spirituale, garantendo alcuni privilegi agli ecclesiastici (esonero dalla leva militare, speciale trattamento penale ecc.); riconosce gli effetti civili del matrimonio religioso e delle
sentenze di nullità dei tribunali ecclesiastici; assicura infine l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali
di ogni ordine e grado, come pure l'assistenza spirituale alle forze armate e agli ospedali.
La stipulazione dei patti lateranensi venne accolta favorevolmente da larga parte dell'opinione pubblica italiana e straniera. Chiari dissensi furono però manifestati da gruppi liberali (celebre l'intervento di B. Croce durante la discussione in Senato) e dai cattolici antifascisti S. Jacini, L. Sturzo).
I patti lateranensi vennero ratificati nel maggio 1929, dopo un momento di ulteriore tensione fra le parti, dovuto in particolare alla divergente interpretazione di B. Mussolini e di Pio XI sull'effettiva portata delle norme concordatarie. La conciliazione tra Chiesa e Stato fu accolta e confermata dalla Costituzione repubblicana del 1947 che all'art. VII dichiara: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai patti lateranensi».
Le trattative, in corso dal 1969 fra il Vaticano e il Governo italiano per una revisione e un adattamento del concordato, sono arrivate a una ratifica il 3 giugno 1985 dopo numerosi tentativi di revisione a partire dal 1976.
Il nuovo concordato, che cerca di salvaguardare la libertà religiosa e la libertà della Chiesa cattolica, oltre ad aver
reso facoltativo l'insegnamento della religione cattolica, ha abolito la congrua al clero
MUSSOLINI-HITLERPerchè l'italia arrivò sguarnita alla guerra?
Perchè non poteva alleasris con gli usa?
Perchè con l'rsi si rialleò con i nazisti?
Perchè era obbligato a firmare il manifesto della razza se c'era il patto d'acciaio?
IMPERIALISMOdichiarazione di guerra a iugoslavia,francia,inghilterra,francia,spagna,libia,sud,somalia britannica,etiopia,somalia,grecia,slovenia,albania
ASCESA DEL FASCISMOL'ascesa del fascismo si concretizzò con lo squadrismo,ulteriormente immotivato considerando che c'era una democrazia con la quale si poteva esprimere,furono distrutte univeristà,biblioteche,sedi di sindacati,sedi dei comunisti
DITTATURANei tempi del fascismo fu svuotato il parlamento al quale si poterono concentrare successivamente solo fascisti,mancanza di libertà di stampa
LAVOROVietò gli sciperi,manifestazioni e cortei,aboli il 1° maggio,sciolse i sindacati,abbassò i salari,e represse successivamente gli scioperi del 43'
NAZIONALISMOAi tempi del fascismo non si poteva trovare nint'altro che roba italiana,le puizie etniche e le guerre combattute solo per cercare di avere un prestigio tra il popolo
Edited by ho chi minh - 1/8/2008, 13:53